Forse non siamo davvero fatti per viaggiare, almeno non come abbiamo sempre creduto. Una teoria ci aiuta a capire il perchè.
Per anni ho osservato, studiato, ascoltato. Ho cercato di capire cosa ci spinge davvero a partire. Non solo oggi, ma da sempre. Ho parlato con viaggiatori, operatori, studiosi, residenti. Ho letto saggi di turismo, antropologia, economia, storia. E ho notato una cosa semplice, ma potente: il viaggio non ha sempre significato la stessa cosa.
Da lì, anche come CEO di Visit Italy, questa intuizione si è trasformata in un percorso di ricerca che ho portato avanti nel tempo. Una riflessione che incrocia fonti accademiche, osservazione sul campo e confronto diretto con le dinamiche reali del turismo contemporaneo. Convinto che solo comprendendo “perché” ci muoviamo possiamo davvero capire “come” viaggiamo oggi.
Così è nata la teoria delle 5 ere del viaggio umano. Non una classificazione rigida, ma una chiave per interpretare le nostre motivazioni profonde nel tempo. Perché ci muoviamo? Perché lo abbiamo fatto? E cosa dice questo del nostro presente?
Ecco le 5 grandi fasi che, secondo questa teoria, hanno segnato l’evoluzione del nostro modo di viaggiare.
1. Era della Sopravvivenza: muoversi per restare vivi
Questa fase è durata oltre 200.000 anni. Per il 99% della storia della specie umana, non ci siamo mai messi in cammino per scelta, ma esclusivamente per necessità. Non c’erano mappe né mete, solo il bisogno di sopravvivere. Ci spostavamo per sfuggire ai pericoli, seguire il ritmo delle stagioni, trovare cibo o riparo.
Non c’era nulla di romantico o avventuroso in quei movimenti. Non cercavamo esperienze: cercavamo di restare vivi. Eravamo nomadi, non viaggiatori. Il muoversi era un riflesso istintivo, una strategia evolutiva.
E ancora oggi, questa dimensione esiste. Non nelle vacanze, ma nelle rotte della disperazione: guerre, disastri, carestie. È un’era che ci appartiene ancora, anche se spesso facciamo finta di non vederla.
2. Era imperiale: partire per conquistare
Ad un tratto, l’uomo non si sposta più per fuggire, ma per conquistare. Con l’avvento di grandi imperi come quello romano, il muoversi da un luogo all’altro assume nuove funzioni. Non lo si fa più solo per sopravvivere, ma per espandere il potere. Le mappe non sono ancora geografiche, sono strumenti militari e lo spostamento degli eserciti genera infrastrutture, reti, insediamenti.
I patrizi iniziano a raggiungere luoghi come Baia, Capri, Campi Flegrei non per necessità, ma per ozio e prestigio. Per la prima volta, ci si muove anche per distinguersi socialmente, per godere del lusso e del tempo libero. E nasce anche un concetto embrionale di villeggiatura.
3. Era del commercio: il viaggio come affare
Nel Medioevo e fino all’età moderna, lo spostarsi assume una nuova motivazione: l’economia. Le grandi civiltà iniziano a organizzare scambi strutturati, e le famiglie mercantili, come i Polo, attraversano continenti per commerciare, stabilire relazioni, consolidare potere e influenza.
Nascono le rotte della seta, i traffici marittimi nel Mediterraneo, le spedizioni via terra e via mare verso l’Oriente. Il mondo si connette attraverso interessi, risorse e profitto. Le distanze diventano strumenti di opportunità, e chi sa muoversi guadagna un vantaggio competitivo.
In quest’epoca, muoversi vuol dire fare affari. Non si parte per esplorare, ma per accumulare. È l’epoca del calcolo, della logistica, delle mappe commerciali. Il valore del muoversi è misurabile in termini economici.
4. Era culturale: spostarsi per conoscere (e conoscersi)
Nel XVIII secolo emerge un nuovo tipo di spostamento: quello per formazione personale. In un’Europa ormai parzialmente mappata e accessibile, i giovani aristocratici iniziano a compiere lunghi percorsi attraverso il continente. È il tempo del Grand Tour.
Non ci si muove più per affari o conquista, ma per arricchire la propria mente. Le tappe diventano obbligate: Parigi, Firenze, Roma, Napoli, con la loro arte, la loro storia, i loro filosofi e pensatori.
Goethe stesso, simbolo di quest’epoca, scrive che l’Italia fu per lui una seconda patria dell’anima. Muoversi significava completare la propria identità, espandere lo spirito, trovare nel mondo specchi per conoscersi meglio. In un’epoca in cui l’accesso alla cultura non era immediato, ci si spostava per imparare. Per vedere con i propri occhi ciò che i libri non potevano trasmettere.
Probabilmente il momento in cui l’evoluzione si manifesta nella sua massima espressione.
5. Checklist Era: viaggiare per dimostrare, non per sentire
Ed eccoci all’oggi. Un’epoca in cui lo spostarsi è diventato accessibile, veloce, onnipresente. Ma anche standardizzato, superficiale, iper-produttivo. Non ci si muove più per fame, per fede, per affari o per studio. Lo si fa per spuntare. Per collezionare luoghi, scattare contenuti, validare la propria presenza nel mondo digitale.
È il tempo dei selfie, dei tiktok, delle 5 capitali in 7 giorni, dei musei visti in 30 minuti. Il 71% delle persone nel 2024 ha scelto la meta anche per la fotogenicità sui social (fonte: Booking.com). Tour operator internazionali vendono pacchetti compressi, mentre metà dei viaggiatori torna a casa più stressata di quando è partita.
Il turismo come lo conosciamo oggi è una creatura giovanissima: è nato appena 100 anni fa e ha conosciuto una crescita così rapida da sorprenderci impreparati. Nel giro di poche generazioni ci siamo ritrovati a dover gestire fenomeni complessi come l’overtourism, le crisi abitative, l’insostenibilità ambientale, la turismofobia.
Ci muoviamo molto, ma viviamo poco. Più che un’esperienza, lo spostamento è diventato una prestazione. Un obiettivo da archiviare, una lista da completare.
Forse, senza accorgercene, siamo arrivati al punto più basso dell’evoluzione del nostro modo di muoverci. Viaggiamo più di ogni altra epoca, ma spesso con meno profondità. Questa è la Checklist Era. E riguarda tutti noi.
Una teoria presentata per la prima volta al TEDxPadova
Questa riflessione ha preso forma nel tempo, ma ha trovato la sua prima condivisione pubblica sul palco del TEDxPadova, il 17 maggio 2025.
Nel mio intervento, intitolato “Siamo davvero fatti per viaggiare? No, non lo siamo”, ho presentato per la prima volta la Teoria delle 5 Ere del viaggio umano: un modello che propone una lettura inedita del nostro rapporto con il movimento. Non siamo mai stati davvero fatti per viaggiare nel modo in cui lo facciamo oggi. Eppure, continuiamo a muoverci. Perché? Quando abbiamo iniziato? E cosa ci spinge, oggi, a farlo così tanto?
Non è una provocazione.
È un invito. A rallentare. A guardarsi intorno.
E a chiedersi, ogni volta che si parte: in che modo voglio farlo?
Verso un nuovo modo di muoverci nel mondo
Oggi abbiamo l’opportunità di riscrivere il significato del viaggio. Dopo secoli in cui ci siamo spostati per sopravvivere, conquistare, commerciare o elevarci, possiamo finalmente domandarci: qual è il senso del nostro partire, ora?
Non è più obbligo, né prestigio, né strategia. È scelta. E questa libertà ci impone una responsabilità: decidere come vogliamo abitare il mondo. Forse il futuro del viaggio non è un luogo da raggiungere, ma un modo di esserci. E forse, proprio perché non siamo mai stati davvero fatti per viaggiare, quando lo facciamo con consapevolezza, lentezza, presenza… possiamo trasformarci.
Il viaggio, allora, smette di essere un’evasione. E inizia a somigliare a un ritorno verso di noi stessi.