Per secoli abbiamo viaggiato per necessità, oggi lo facciamo senza un vero scopo. Ma allora, qual è il vero significato del viaggiare?
di Ruben Santopietro
Per circa 200.000 anni, viaggiare per l’essere umano è stata solo una questione di necessità. Caccia, raccolta, migrazioni stagionali, guerre, epidemie, esplorazioni commerciali: ogni spostamento aveva uno scopo chiaro. Non siamo mai stati viaggiatori nel senso moderno del termine, ma piuttosto nomadi obbligati dalle circostanze. La sedentarizzazione e l’avvento dell’agricoltura hanno progressivamente ridotto il bisogno di spostarsi, e per la maggior parte della storia umana il viaggio è rimasto un’esperienza riservata a pochi.
Solo a partire dal XVIII secolo il concetto di viaggio ha iniziato a cambiare. Con il Grand Tour, i giovani aristocratici europei intraprendevano un itinerario formativo attraverso le capitali culturali del continente: Parigi, Vienna, Roma, Napoli, Atene. Non era ancora turismo, ma piuttosto un rituale di passaggio, un privilegio riservato a chi aveva tempo e risorse finanziarie per scoprire il mondo. Anche allora, lo scopo era chiaro: apprendere, affinare il gusto, consolidare la propria posizione sociale.
Ma il turismo di massa, come lo intendiamo oggi, è nato solo negli ultimi 80 anni. L’idea di viaggiare senza uno scopo pratico è un concetto incredibilmente recente nella nostra storia evolutiva. Se osserviamo attentamente, il turismo moderno ha trasformato le antiche necessità umane in attività ludiche: la caccia è diventata ristorazione, la raccolta si è trasformata in shopping. Ci aggiriamo per città e siti storici senza una vera meta, senza inseguire qualcosa di vitale per la sopravvivenza, ma solo per vedere, per guardare, per essere presenti in un luogo.
È una follia, se ci pensiamo bene. Il turismo è l’unico tipo di viaggio senza scopo. Non stiamo fuggendo da una carestia, non stiamo combattendo una guerra di religione, non stiamo cercando nuove rotte commerciali. Stiamo semplicemente camminando in giro e osservando cose. E la verità è che, essendo così nuovo per la nostra mente, non sappiamo nemmeno bene quando il viaggio finisce. Non c’è un inizio chiaro, né una conclusione evidente.
Forse ti sarà capitato: sei in un museo, in una piazza storica, davanti a un monumento. Sei immerso nel momento, cercando di coglierne il significato, quando tuo figlio ti tira la manica e chiede con impazienza: “Possiamo andare adesso?”. Ti fermi un istante, guardi l’orologio, poi gli rispondi quasi d’istinto: “Aspetta, facciamo una foto e andiamo”. Ma perché lo facciamo? Quella foto è davvero la fine del viaggio, il suo compimento? Forse lo facciamo perché abbiamo bisogno di un gesto che segni la fine, un piccolo rito che ci dica che quel momento è stato vissuto, anche se in fondo il viaggio non si lascia mai davvero catturare.
Quindi perché viaggiamo, se non per necessità? Se il turismo non ha uno scopo pratico, cosa lo rende così potente da muovere miliardi di persone ogni anno? Forse la risposta sta in ciò che il viaggio ha sempre creato, da quando l’umanità ha iniziato a muoversi: le connessioni.
Come CEO di Visit Italy, vedo ogni giorno l’evoluzione del modo in cui le persone viaggiano e scelgono le proprie destinazioni. Il viaggio non è più solo un’esperienza di scoperta, ma un’opportunità di connessione profonda con persone, culture e storie. Più la tecnologia progredisce, più la vera essenza del viaggio diventa l’incontro umano. Il viaggio ci spinge a uscire dalla nostra zona di comfort, ad ascoltare storie diverse, a vedere il mondo con altri occhi. In un’epoca in cui possiamo esplorare ogni luogo con un clic, la vera scoperta non è più nelle strade che percorriamo, ma nelle persone che incontriamo lungo il cammino.
Forse il viaggio è il nostro modo più autentico di restare umani. Un bisogno ancestrale, che oggi non è più legato alla sopravvivenza, ma alla nostra evoluzione emotiva e culturale. Non è il movimento a dare significato al viaggio, ma l’incontro. E in quell’incontro, forse, troviamo il senso più profondo di tutto il nostro andare.