Un viaggio tra i luoghi comuni che frenano il turismo italiano. Per riscrivere l’immaginario e costruire una narrazione nuova e più corretta.
di Ruben Santopietro
Ci sono parole che sembrano innocue, ma che lentamente scavano. Frasi ripetute da anni, nei talk show, nei convegni, nei documenti istituzionali, che suonano familiari, persino rassicuranti, ma che nascondono un problema profondo: deformano la nostra visione del turismo.
Nei giorni scorsi ho letto “Il petrolio dell’Italia” di Antonio Preiti. Un libro che raccoglie molti di questi luoghi comuni, quelli che da anni circolano nel dibattito pubblico come se fossero verità assolute. La lettura ha riacceso in me una convinzione che porto da tempo, se vogliamo cambiare davvero il turismo in Italia, dobbiamo prima cambiare le parole con cui lo raccontiamo.
Come CEO di Visit Italy, lavoro ogni giorno con territori che cercano di liberarsi da vecchi cliché e riscrivere il proprio posto nel mondo. E so bene quanto sia difficile farlo se il racconto collettivo rimane fermo. Ecco allora i luoghi comuni più tossici del turismo italiano. Quelli che ci impediscono di vedere il presente e immaginare un futuro diverso.
Provo a smontarli uno a uno, con il punto di vista di chi lavora sul campo e con la convinzione profonda che l’Italia, per essere davvero raccontata, ha bisogno di molto di più di qualche slogan.
1. “L’Italia si vende da sola”
È l’espressione perfetta per non fare nulla. Affermare che l’Italia si vende da sola significa legittimare l’inerzia. Significa accettare che basti la sua bellezza, la sua eredità culturale, il suo passato, per garantirsi futuro. Ma la verità è che nessuna destinazione si vende da sola. Nemmeno l’Italia.
Oggi la competizione tra territori si gioca sulla capacità di costruire un immaginario, di attivare narrazioni credibili, di progettare esperienze coerenti. I flussi non si spostano per caso, si orientano, si ispirano, si guidano. Pensare che il nostro patrimonio basti da solo è una forma di autocompiacimento che, nel tempo, diventa pericolosa. Perché mentre noi ripetiamo questa frase, il resto del mondo investe in strategie, in comunicazione, in campagne marketing.
Il rischio è continuare ad alimentare l’overtourism nelle solite città d’arte “già vendute” (Roma, Venezia, Firenze). E lasciare invisibile il resto del Paese.
2. “Siamo un popolo di camerieri”
Questa frase è rischiosa. Perché sminuisce una delle più grandi ricchezze del nostro Paese, la cultura dell’accoglienza. Accogliere non è servilismo, piuttosto è un’arte. Occorrono intelligenza emotiva, capacità di mettere a proprio agio, di anticipare bisogni, di creare connessioni umane.
Nel turismo, ogni ruolo è un punto di contatto tra il territorio e il mondo. Il cameriere, la receptionist, l’albergatore, tutti sono ambasciatori di un’esperienza. E spesso fanno molto più di ciò che pensiamo, sopratutto nell’era dell’intelligenza artificiale.
E poi c’è l’altra accusa, spesso accostata a questa: “il turismo porta la ricchezza in mano a pochi, con bassi salari e bassa produttività”.
In realtà, è vero il contrario. A differenza di molti altri settori, dove la ricchezza tende a concentrarsi, il turismo (se ben distribuito) ha la straordinaria capacità di moltiplicare valore. Ogni euro speso da un viaggiatore può finire nelle mani di un ristoratore, di una guida locale, di una cooperativa culturale, di un artigiano, di un artista, di una famiglia che ha trasformato una casa in un B&B. È un’economia che connette mondi diversi, che crea filiere, che rafforza le comunità.
Il turismo può far rinascere un piccolo borgo molto prima che una multinazionale decida di aprire lì una fabbrica, assumere tutti o far arrivare ingegneri da mezza Europa. È un’economia di prossimità, accessibile, rapida, umana. E merita rispetto.
3. “Il turismo è il petrolio d’Italia”
Sembra una frase d’impatto. Ma è il peggior paragone che possiamo fare.
Perché il petrolio è una risorsa che si estrae, si consuma e si esaurisce. Il turismo non è un giacimento da trivellare, è un ecosistema vivo che funziona solo quando c’è equilibrio, tra bellezza e rispetto, tra qualità della vita dei residenti e qualità dell’esperienza del viaggiatore.
Quando sento questa frase, mi viene in mente il contrario di ciò che è corretto fare… non spremere il territorio, ma generare valore senza consumarlo. Il turismo non è un dono della geografia. È una scelta culturale, è un progetto a lungo termine.
Se proprio volessimo fare una metafora, sarebbe più corretto immaginare il turismo come un campo di fiori. Da annaffiare, da proteggere, da preservare con cura.
4. “Con il turismo consumiamo le risorse del territorio”
Questo è uno dei luoghi comuni più radicati, alimentato da una visione che vede il turismo solo come impatto e mai come opportunità. Ma il punto non è se il turismo consuma risorse. Il punto è come viene progettato.
Il turismo può deteriorare, certo, se è lasciato a se stesso, se invade senza criteri, se ignora le comunità locali. Ma può anche rigenerare, può riportare vita in luoghi abbandonati, sostenere l’artigianato, dare un futuro ai giovani, valorizzare il paesaggio, promuovere la manutenzione, attrarre investimenti pubblici e privati. È già successo, e continua a succedere.
In molti piccoli comuni, ad esempio, il lavoro che abbiamo fatto ha segnato la differenza tra il declino e la rinascita. Dove il turismo ha preso piede, il reddito cresce e la popolazione resta. Dove non arriva, il destino è lo spopolamento.
5. “Il turismo mordi e fuggi”
Un altro falso problema.
Pensiamo che se un turista resta poco, allora è superficiale, irrispettoso, inutile. Ma se guardiamo i dati, ci accorgiamo che le permanenze brevi sono la norma ovunque: a Parigi, a Londra, a Madrid.
E non sono una disgrazia. Sono un modello. Si chiamano city break, e possono essere molto più intensi e consapevoli di certi soggiorni lunghi. Anzi, il vero problema non è quanto tempo resta il turista. È quale esperienza vive in quel tempo. Possiamo scegliere se offrirgli una visita veloce o farlo immergere in quell’esperienza. E quella scelta sta tutta nella progettazione dell’offerta, non nella durata del soggiorno, in che sistema turistico creiamo: come lo accogliamo, come gestiamo i flussi, cosa costruiamo intorno a quell’arrivo.
6. “Abbiamo oltre la metà del patrimonio culturale mondiale”
Anche questa è una bugia travestita da orgoglio. Non abbiamo “metà del patrimonio mondiale”. Abbiamo tanti siti UNESCO, è vero, al momento sono 61, più di ogni altro paese, ma non basta contarli per avere un vantaggio competitivo. Avere patrimonio non significa avere turismo. Atene ne è la prova. L’India anche. Ciò che conta è come lo racconti, come lo rendi vivo. Come lo fai incontrare con il mondo.
E soprattutto, non basta avere bellezza, bisogna narrarla, renderla desiderabile, fruibile, attrattiva. Il resto è retorica.
7. “In Italia c’è overtourism ovunque”
No, questa è una distorsione percettiva, in Italia non c’è overtourism ovunque. Piuttosto il problema vero si chiama unbalanced tourism (turismo sbilanciato). Tutti negli stessi luoghi, negli stessi periodi dell’anno, per vivere le stesse esperienze. Basti pensare che il 70% dei viaggiatori internazionali si concentra sull’1% del territorio italiano.
Nel frattempo, il restante 99% del Paese resta ai margini. Non perché manchi di bellezza o di valore, ma perché non fa parte dell’immaginario collettivo. Il punto è tutto qui. Non basta dire “venite anche altrove”. Bisogna rendere quel “altrove” desiderabile, riconoscibile, raccontabile.
È il lavoro che stiamo facendo, passo dopo passo, con alcune destinazioni che hanno avuto il coraggio di riscrivere la propria storia. Ad Arezzo, per esempio, dove una strategia coerente e continuativa ha trasformato la percezione di una città troppo spesso sottovalutata.
A Tropea, dove una narrazione nuova ha innalzato la reputazione e attirato un turismo anche in bassa stagione, trasformandola nel motore turistico della Calabria. In Sardegna, dove il progetto Salude & Trigu ha mostrato al mondo un’altra isola, portando un +33% di turisti americani nei piccoli comuni del nord. E ora anche Genova, che sta finalmente trovando una voce internazionale che le somiglia, capace di superare vecchi cliché e aprirsi a un pubblico diverso.
Un nuovo linguaggio per un nuovo modello
Tutti questi luoghi comuni hanno una cosa in comune, ci tengono fermi.
Consolidano una narrazione stanca, autoreferenziale, incapace di leggere le trasformazioni in corso. E così facendo impediscono l’evoluzione del nostro modello.
Oggi serve un lessico nuovo. Che non parli di turismo come sfruttamento, ma come infrastruttura culturale. Che non guardi al visitatore come a un numero, ma come a un ospite. Che non dipinga il servizio come servitù, ma come competenza umana. È il lavoro che stiamo facendo, ogni giorno, con territori che hanno avuto il coraggio di rimettersi in gioco.
Dal sud al nord, nelle aree interne, lungo le coste meno battute, nei centri storici dimenticati, stanno nascendo modelli nuovi più equi, più consapevoli, più umani. Sistemi turistici che non si accontentano di accogliere visitatori, ma generano opportunità per chi resta. Che non chiedono visibilità, ma visione.
Perché il turismo, quando è ben pensato, è il mezzo per far rinascere luoghi, storie, economie.



