Cosa succede quando i territori si muovono più velocemente del sistema? Un viaggio tra visione, dati, silenzi e verità che in pochi dicono.
Il turismo italiano è cambiato. Oggi i viaggiatori scelgono le destinazioni non per ciò che viene promosso dall’alto, ma per ciò che riesce a emozionarli, coinvolgerli, rispecchiarli. Il viaggio è diventato un atto culturale, personale, quasi politico. E mentre i territori sperimentano nuovi linguaggi e costruiscono nuove attrattività, il discorso pubblico sul turismo rimane spesso immobile, ripiegato su schemi analitici incapaci di intercettare la trasformazione in corso.
Non è una critica ideologica, ma una divergenza di approccio. Pur essendo stato talvolta chiamato a tenere docenze in università prestigiose e riconoscendo il valore di certi percorsi formativi, mi rendo conto che troppo spesso in Italia il sapere resta confinato nei libri, anziché misurarsi con il campo. Ma l’accademia, in questo senso, è solo la punta di un sistema più ampio: un ecosistema fatto di formalismi, approcci autoreferenziali e distanza dal campo. Chi progetta piani turistici raramente si confronta con l’urgenza concreta di un comune che vuole posizionarsi senza risorse, senza tempo, senza reti consolidate. In questo scarto profondo, tra chi osserva e chi agisce, si gioca oggi la credibilità di chi parla di turismo senza farlo accadere.
L’impatto visibile nei territori
Nel frattempo, fuori dai convegni, sono nati progetti che hanno prodotto risultati tangibili. In Sardegna ad esempio, il progetto Salude & Trigu, promosso dalla Camera di Commercio di Sassari e accompagnato da una strategia di comunicazione strutturata, ha contribuito a un aumento del 33% delle presenze straniere in tre anni, coinvolgendo 66 comuni e restituendo centralità a territori interni spesso esclusi dalle rotte principali.
Ad Arezzo invece, una strategia di posizionamento fondata su narrazione digitale, identità condivisa e marketing integrato ha portato la provincia a registrare nel 2023 il miglior tasso di ripresa turistica della Toscana post-pandemia.
A Tropea, la valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, unita a un racconto coerente e identitario, ha portato nel 2024 oltre 139.000 ospiti, mezzo milione di pernottamenti e un +8% di presenze internazionali, trasformandola in uno dei simboli del turismo esperienziale in Italia.
A Genova, è in corso un lavoro di ripensamento dell’identità turistica cittadina, basato non su slogan, ma su contenuti e valori capaci di sostenere una nuova reputazione a lungo termine. E potrei continuare con Courmayeur, Livigno, Oriolo, Ragusa, Monreale, i piccoli borghi marchigiani.
In tutti questi progetti — che con il team di Visit Italy seguiamo e supportiamo da anni — la svolta non è arrivata da modelli astratti, ma da una scelta concreta: smettere di aspettare e iniziare a costruire. Sindaci, assessori, dirigenti, Pro Loco: donne e uomini che hanno deciso di mettersi in gioco, raccontare il proprio territorio con autenticità e sviluppare strategie che non imitano, ma generano impatto e risultati reali.
Noi li chiamiamo i territori ribelli.
I dati non bastano più
In Italia siamo abituati a misurare tutto, tranne l’impatto delle idee. I numeri restano essenziali, ma ci raccontano sempre e soltanto ciò che è già accaduto. La vera sfida oggi non è possedere dati, ma comprendere dove si sta generando il cambiamento, prima che diventi visibile nelle curve o nei report. E quel cambiamento, spesso, inizia nei territori che ancora non compaiono nei grafici, ma già influenzano le scelte dei viaggiatori più attenti.
C’è stato un tempo in cui si diceva: “senza dati sei solo un’altra persona con un’opinione”. Era un’affermazione giusta, in un mondo dove l’accesso alle informazioni era riservato a pochi e chi possedeva i dati deteneva anche il potere. Oggi, però, i dati sono una commodity: sono ovunque, accessibili, replicabili. La differenza non la fa chi li possiede, ma chi sa leggerli in profondità, connetterli a una visione e trasformarli in direzione.
Oggi potremmo dire l’esatto opposto: “se non hai una visione, sei solo un’altra persona con dei dati”. Ed è proprio questo il rischio che corre una parte del mondo accademico e tecnico: ridurre il turismo a una sequenza di indicatori, dimenticando che dietro ogni scelta di viaggio c’è una spinta culturale, emotiva, sociale. Ci sono persone.
Il futuro non aspetta che le evidenze diventino numeri. Lo costruisce chi sa interpretare i segnali deboli, chi ha il coraggio di sperimentare, e chi riconosce valore anche dove il sistema ancora non guarda.
La lezione spagnola
È sufficiente guardare fuori dai confini italiani per capire cosa è possibile fare quando si mette in discussione l’esistente. La Spagna, considerata fino a trent’anni fa una destinazione periferica e poco competitiva, ha avuto il coraggio di riformulare completamente il proprio modello turistico. Oggi è la locomotiva d’Europa per crescita del PIL ed una delle nazioni più avanzate al mondo in termini di infrastrutture, promozione integrata, gestione dei flussi e valorizzazione delle identità locali.
Nessun dato dell’epoca avrebbe potuto prevedere questa trasformazione. Se ci si fosse affidati solo ai numeri, la Spagna sarebbe rimasta dov’era. È servita una visione. È servita la scelta, politica e culturale, di cambiare i dati invece di limitarcisi. Non è stato un caso. È stato un progetto. Ne parlo in questo articolo.
Ed è proprio questo il punto: la differenza tra evoluzione e stagnazione sta nella volontà di affrontare i nodi veri, non nell’apparenza di un sistema che si protegge dietro convegni e formalismi.
Serve coraggio, non copertura istituzionale
Se non si ha il coraggio di nominare i problemi reali, non si può costruire nulla.
Il turismo italiano è pieno di analisi che non si traducono in azioni, pieno di tavoli dove si discute senza che ne derivi alcuna decisione concreta.
Ci si nasconde negli uffici del potere, ci si protegge dietro vecchi schemi che oggi non funzionano più, e si frequentano panel in cui si replicano formule logore, quasi a voler tenere tutto fermo per non perdere il proprio ruolo.
Tutto questo non serve più a nulla, e non servirà a cambiare le cose.
Una responsabilità che non si può più rimandare
Il cambiamento è già in atto. I territori lo stanno guidando, anche senza permessi. Chi ha il compito di orientare le politiche pubbliche e culturali deve decidere se accompagnarlo o restarne ai margini.
Il turismo italiano non ha bisogno di un’altra narrazione patinata, né di piani senza conseguenze. Ha bisogno di ascolto, coerenza e coraggio. Non servono più ricette perfette. Servono visioni imperfette ma reali, che partano dai luoghi, non dai protocolli.
Il punto non è se il sistema è pronto. Il punto è che i territori non possono più aspettare.